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Testimonianze dei membri dell'equipaggio |
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Claudio Suttora (Primo Ufficiale, Chiavari - GE ) |
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Foto:Gian Filippo Zichele (a sinistra) e Claudio Suttora (a destra) Membro dell'equipaggio: Claudio Suttora
Mansione: Primo Ufficiale
Nave: Michelangelo
Evento: L'incidente avvenuto il 12 Aprile 1966
Testimonianza personale inedita del 1° Ufficiale Claudio Suttora, scritta nel Marzo 1991. Un pezzo di storia
(AVVERTENZA: Il copyright appartiene al Sig. Claudio Suttora. Il testo, o parti di esso non possono essere utilizzati al di fuori di questo sito senza il permesso del legittimo proprietario)
"L’oceano Atlantico nell’inverno del 1966, fece vedere i sorci verdi a tutti i naviganti che furono costretti ad attraversarlo. I fortunali partivano da Cape Hatteras come piattelli in un campo di tiro a volo, uno dopo l’altro, senza dar un attimo di respiro all’oceano; senza neppure una di quelle, sia pur brevi tregue che, anche negli inverni più duri, permettono all’alta pressione di appiattirlo un po’. Su navi veloci di linea come la Michelangelo, la Raffaello, la Leonardo da Vinci e la Cristoforo Colombo e le altre navi di compagnie straniere, che attraversavano l’oceano in meno di quattro o cinque giorni, quelle brevi rappacificate ti permettevano, se eri fortunato, di infilarti nell’Atlantico, anche per più volte di seguito, senza sbatterci contro, sin dal primo istante in cui mettevi il naso fuori dello Stretto di Gibilterra. Questo almeno fino alle Azzorre, poi era un’altra cosa. Le ultime mille miglia per New York bisognava sapersele guadagnare con tanta abilità e tanta fortuna: questa soprattutto! Fra “storms” e “gales”, (nomi inglesi per tempesta e burrasca) che sulla nostra carta meteorologica continuamente aggiornata, sembravano sciami di calabroni in volo, dovevi, se volevi arrivare a New York, cacciatici dentro. Non c’era altro da fare. L’inverno del 1966, dicevo, fu particolarmente severo con i naviganti, ma non tanto quanti lo fu in particolare il periodo della prima luna nuova dopo l’equinozio di primavera. Io mi trovavo imbarcato in quel periodo come primo ufficiale, in comando della terza guardia, quella del cane: da mezzanotte alle quattro del mattino e da mezzodì alle sedici. Sulla turbonave “Michelangelo” in linea passeggeri per il Nord America in concorrenza con la gemella e le consociali. Perché ricordo oggi, a venticinque anni di distanza, questa storia? Qualche sera fa, rimescolando tra le mie vecchie carte, ho trovato la lettera di mia madre del 14/4/66, che mi ha fatto rivivere quei momenti. Mia madre scriveva: “ Carissimo Claudio, non ti dico come sono rimasta nel sentire alla radio cosa vi è capitato . . . “ Cosa c’era capitato ? Evidentemente una brutta avventura di mare che ora mi accingo a raccontare. Per farlo meglio ho riesumato dal mio “dossier” due cartine che a suo tempo mi erano state ordinate di compilare per aiutare il Comandante Soletti (ormai defunto) a redigere il suo rapporto di avvenimento straordinario, destinato alle autorità marittime ed alle assicurazioni. Quel mio lavoro doveva servire a mostrare la situazione meteorologica dominante al momento in cui si erano svolti gli avvenimenti. Carte che io, come si può vedere dalla fotocopia che allego avevo animato, non solo con la contrapposizione dei punti nave alle posizioni dei centri depressionari fornitici dai bollettini meteo di Halifax e di Washington, ma inserendovi anche le posizioni e gli avvenimenti successi alle altre navi in zona, con le quali eravamo in contatto radiotelegrafico. Le cartine mi sembrano abbastanza chiare: nella 1° si nota la traccia della rotta seguita dalla “Michelangelo”, i rispettivi punti di mezzodì per tutti i giorni della traversata, il punto ove il giorno 12 ci capitò “la fortuna di mare”, con i vari cambiamenti di rotta sino al mezzodì del 13, quando lentamente potemmo dirigere di nuovo la prora per la nostra destinazione. La 2° riguarda più in dettaglio la situazione meteo prima, durante e dopo l’avvenimento. In entrambe risaltano i “mosconi” o meglio le posizioni degli “stormi”, contrassegnate da un numero progressivo che corrisponde a quello dei relativi bollettini meteo. Nella parte centrale della seconda cartina, in corrispondenza del giorno 12, risulta chiaramente come la nave si trovasse a sole 300 miglia nautiche (circa 540 Km) dal centro del fortunale, mentre dalle stime contenute nei bollettini immediatamente precedenti avrebbe dovuto trovarsi a più di 600 miglia (circa 1.100 Km) di distanza dal nostro punto di mezzodì del 12/4. Il fortunale aveva un’ampiezza di 1000 miglia e pertanto impossibile ad evitarlo. Come ho già detto, le giornate che seguirono l’equinozio di primavera furono particolarmente brutte; l’intera area centro-nord-occidentale dell’Atlantico era percorsa ininterrottamente da tempeste di un certo spessore che avvicendandosi una dopo l’altra, non davano alle acque il tempo di calmarsi, anzi le accentuavano sempre più e sempre peggio. Poiché nel passaggio di una perturbazione il vento gira da sud-est (scirocco) in senso orario, per quasi tutto l’arco dell’orizzonte, avviene che il mare per il successivo vorticare del vento, diventa quello dalle caratteristiche peggiori, vale a dire molto grosso e incrociato, “Bulesume” dicono i marinai liguri…ma alla grande! Prevalendo però i venti del 3° e 4° quadrante, anche i marosi di maggior mole, alti in media dieci e più metri, provenivano da quelle direzioni, ed era proprio quello il mare grosso di prora che in genere disturbava gli ultimi due giorni della traversata per New York. Noi eravamo entrati nell’Atlantico il giorno 9 e avevamo trovato il cattivo tempio già formato. Le previsioni meteorologiche erano brutte, ma non più inquietanti del solito. Per tutto il giorno 9 la navigazione seguì regolare alla velocità di crociera di 24 nodi circa. La vita a bordo era disturbata dalle solite improvvise scrollate dovute alla prua affilatissima che tagliava i grossi gorghi; poche però le piattonate violente dello scafo che s’alza sul maroso per poi
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abbattersi con tutto il peso sopra il successivo. Tra i giorni 10 e 11 ci fu il solito respiro offerto dal ridosso delle Isole Azzorre. Il giorno 11, dal primo pomeriggio, cominciammo a sentire le prime avvisaglie della situazione depressionaria che si stava organizzando nell’Atlantico nord-occidentale. Intanto a 1200 miglia a ponente della “Michelangelo”, sotto la costa nordamericana, in piena corrente calda del Golfo (la “Gulf Stream”) si stava formando la “depressione assassina”. Al momento era di soli 742 mm, e le previsioni meteo di Halifax la davano in rapido spostamento vero NE. Queste previsioni, come pure tutti i nostri calcoli e quelli delle altre navi che si trovavano in zona, al momento del dunque risultarono errati. Dalla nostra cartina 2 rileviamo che la depressione da 742 mm era scesa alle 0000 GMT del giorno 12, a 734 mm, con tendenza a diminuire ancora e che la sua velocità d’allontanamento dai nostri paraggi si era addirittura dimezzata, sicché l’incrocio tra noi ed il centro della depressione non avvenne ad un distanza di 600 miglia, come previsto, ma a sole 300 miglia. Ciò ci fu confermato dai successivi bollettini conditi dal senno di poi, e di ciò ci rendemmo conto assistendo ad un graduale peggioramento del tempo. Quella notte io scesi dal ponte al termine della mia guardia come al solito poco dopo le quattro del mattino, rotto dalla stanchezza: era stata una guardia pesante perché sin dal suo inizio il mare ed il vento erano notevolmente rinforzati. La “Michelangelo” causa il mare grosso beccheggiava e rollava, scivolava e s’impuntava come l’archetto di un….violino di spalla, scrollando e vibrando tutta come se fosse lanciata in un travolgente galop. Mi cacciai in cuccetta ma invano tentai prendere sonno; la stessa cosa penso accadeva a tutti coloro che come me in quella notte, si trovavano rinchiusi in quel medesimo scafo. Il Comandante Soletti, sul ponte sin dalle prime avvisaglie di tempesta, aveva dato intanto l’ordine di proseguire per rotta lossodromica in modo da prendere il mare sul mascone di dritta e non proprio di prua. La nuova rotta faceva via per 240°. Per prudenza intanto, già dal giorno prima tutti i passeggeri alloggiati nelle cabine davanti: le più richieste perché gli oblò e finestroni si aprivano sugli spazi immensi verso i quali la nave correva – erano stati trasferiti in cabine più interne lontane dai colpi di mare e dai rumori della tempesta. Naturalmente oltre a questo erano stati presi tutti gli altri provvedimenti di routine, come la corazzatura dei finestroni e degli oblò siti sul frontale e su entrambi i fianchi della nave dal livello del mare sino al ponte vestiboli, erano state chiuse tutte le porte stagne, tese le corde salvavita nei saloni, nei vestiboli ed in tutti i locali più vasti dove altrimenti sarebbe stato impossibile muoversi senza appiglio a cui sostenersi. Erano stati dati inoltre a mezzo altoparlante frequenti avvisi di prevenzione infortuni invitando i passeggeri a spostarsi per la nave soltanto in caso di necessità. Come ho detto la depressione, “quella”, avanzava preparandosi a colpire la “Michelangelo”, ma non soltanto la “Michelangelo”, pure tutte le altre navi che trovavano in zona. La prima a subire danni fu la petroliera liberiana “Rokos”, che si trovava a circa 100 miglia a NW dalla nostra posizione. Fu lei a lanciare quella notte il primo S.O.S. che, captato dalle stazioni della Coast Guard Americana, fu ritrasmesso dalla stessa Coast Guard a tutte le navi che navigavano nelle vicinanze. Ecco il drammatico messaggio che ricevemmo quella mattina: “Distress (disgrazia = S.O.S.) S/S “Rokos” affondando – imbarcando acqua nelle stive del carico – dalla falla l’acqua affluisce fuori da ogni controllo – sta affondando………MX (condizioni meteo sul posto): Vento NNW da 35 a 50 nodi (da 60 a 90 km-ora) Mare da 14 a 20 piedi (da 4 a 6 mt.) Raffiche di vento a 60 nodi (110 km-ora) Pesanti groppi di vento e pioggia – Rotta non conosciuta – U.S.C.G.” Quando ricevemmo questo S.O.S. a bordo della “Michelangelo” erano esattamente le 06.38, pochi minuti dopo il Comandante Soletti ordinava: “Fare rotta sulla “Rokos”, velocità massima compatibile alle condizioni del mare”. Chiunque al posto del Comandante Soletti avrebbe fatto lo stesso di fronte a quella disperata richiesta di soccorso. Noi eravamo, peraltro, la nave più vicina a quella in difficoltà. La “Michelangelo” quasi comprendesse quando si richiedeva da lei, filava superba, tagliando le onde, sollevando enormi quantità di spruzzi e lame d’acqua che raggiungevano le ciminiere. Non erano soltanto spruzzi o sbrinate; colpi di mare secchi come colpi di maglio cominciarono a frangersi sulla prua, spazzando la coperta. Quella marcia forzata che doveva durare almeno cinque ore, durò invece soltanto mezz’ora, perché la “Rokos” messasi in contatto diretto con noi, ci faceva pervenire il seguente messaggio: “Falla sotto controllo – Non necessitiamo immediata assistenza – Manteniamo contatto radio – il Comandante.”. Il Comandante Soletti bofonchiò qualcosa tra i denti e poi come sollevato da un peso, ordinò di rimettere la nave in rotta per New York. Intanto la sorte aveva filato la sua trama mescolando le nostre carte con quelle della “Rokos”. Il primo colpo le era quasi andato a segno, ora dovevano essere portati a bersaglio altri due tremendi colpi che, alla fine della giornata, avrebbero fatto salire il numero delle vittime umane ad otto più una ventina di feriti, tra i quali una decina molto gravi. Ecco il susseguirsi di questi fatti.
Appena in rotta dopo l’inutile galoppata contro le streghe della “Rokos”, l’ufficiale di macchina addetto ai servizi elettrici informa che causa i colpi di mare, risultavano danneggiate le prese d’aria della tuga di prora che conteneva le apparecchiature elettriche dei verricelli da carico. Il Comandante Soletti d’accordo con il direttore di macchina e il Com.te in 2° Cosulich, decise che appena sarebbe stata pronta la squadra
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di pronto intervento, avrebbe poggiato tanto da poter effettuare i lavori di riparazione con il mare ed il vento in poppa. Così fu fatto. Le cause e concause intanto si associavano e costruivano l’ingranaggio che ci avrebbe portato al momento cruciale. La nave con il mare in poppa sembrava entrata in un altro elemento: se andare controvento era come affrontare un boxeur che riempie la faccia di pugni nascosto sotto un accappatoio di schiuma e di spruzzi, andare in poppa era come esser entrati in una comitiva d’ubriachi abbastanza tranquilli; una specie di bolgia in ogni caso, solcata da vaste spaccature e gobbe in un succedersi di strapiombi e avvallamenti dove la nave arrancava inseguita dal fiato corto del vento alle spalle, affannato nel tentativo di sorpassarla. La tavolozza dei colori era la più tetra immaginabile: tutta la gamma dei grigi, dal più livido al più cupo, poiché nuvolosi e marosi combaciano tutto intorno a noi. La nave, dopo che era stata fatta aumentare di poco la forza delle motrici per ottenere dalle pinne degli stabilizzatori il massimo rendimento dinamico, procedeva bene con andatura più rilassata, anche se ancora rollante, senza più patire per quelle sonore capocciate di prua che si era accanita a dare, specie nella mezz’ora in cui era diretta in soccorso della “Rokos”. La squadra di marinai e tecnici poté così portare a termine la riparazione dei danni inferti dai colpi di mare alle maniche a vento della tuga prodiera. Questo rilassamento durò poco più di un’ora ma fu fatale per molte persone imbarcate sulla “Michelangelo”. Cosa accadde in quest’ora di andatura quasi riposante rispetto alla precedente? Penso a me: io mi alzai, stufo degli sballottamenti sofferti mentre stavo in cuccetta e approfittai per farmi la barba e la colazione, prima di andare sul ponte di comando a vedere cosa stava succedendo. Per i coniugi tedeschi Berndt fu il momento adatto per andare dalla cabina in cui erano stati trasferiti quella notte, alla loro cabina sita sul davanti del ponte superiore, per cambiarsi d’abito. Mr. Steinback, un americano, pensò bene di fare la stessa cosa e si fece accompagnare dal cameriere Arcidiacono nella cabina contigua a quella dei coniugi Berndt. E cosa pensarono di fare un gruppo di camerieri e di garzoni fuori servizio? Ebbero la trovata di andare a far visita ai loro colleghi dei ponti alti per spiare dai finestrini che davano sulla prora lo spettacolo del mare in tempesta e perché no? Scattare anche qualche foto ricordo! Altra gente, durante quell’intervallo, si mosse con disinvoltura per la nave. Fatalità volle che questi atti normali molti dei protagonisti non li avrebbero potuti più scordare per tutto il resto della loro vita. Tra questi, tre addirittura, non sarebbero nemmeno sopravvissuti. Verso le 10 il Comandante in seconda Cosulich informò per telefono il Comandante Soletti che il lavoro alla tuga era terminato. Per evitare ulteriori infiltrazioni d’acqua di mare s’era provveduto a sistemare sui funghi degli aeratori delle apposite cappe. Tutto era a posto, si poteva ritornare in rotta. In quel momento io ero entrato in plancia. Conservo la memoria fotografica di quei momenti: il Comandante Soletti ed il primo ufficiale Ascheri stavano appoggiati sul corrimano fisso in corrispondenza dei due ultimi finestroni di dritta, leggermente chini in avanti, intenti a seguire con lo sguardo il procedere della nave sul mare in tempesta. C’era anche il fotografo di bordo che dal finestrone del lato opposto, scattava fotografie alle ondate più interessanti. C’erano inoltre i timonieri e gli ufficiali in sottordine che si davano da fare ai radars o al carteggio in sala nautica. Salutati il Comandante ed i presenti, mi avvicinai al finestrone di centro per dare un’occhiata fuori e chiesi notizie. Ascheri mi indicò gli uomini in coperta che stavano rientrando dopo aver reso impermeabili le maniche a vento della tuga, e mi spiegò il motivo appunto per il quale ci eravamo trovati a correre con il mare in poppa. Proprio in quel momento giunse la telefonata su riferita del Comandante in seconda. Mi risuona ancora nelle orecchie la voce calma e forte del Comandante Soletti che ordina: “Dite in macchina di ridurre le rotazioni delle eliche a 120 giri.” In quell’istante la sorte decise per la mia vita; se fossi rimasto lì ancora per pochi minuti, l’orrendo mostro, fracassando il cristallo del finestrone, avrebbe portato via anche la mia testa. Invece mi venne l’estro di consultare la carta di navigazione in sala nautica. Mentre ero chino sulla carta con il compasso in mano, sentii nuovamente la voce del Comandante Soletti ordinare: “Timoniere ritorna piano in rotta per 240°.”. Io non so esattamente quanti minuti saranno passati tra l’ordine di riduzione di velocità e l’ordine di ritornare in rotta, certo non molti, ma per chi mi legge e volesse fare il critico, io dico che questa successione di ordini era nello spirito stesso delle cose, del momento, delle circostanze, era nello spirito di chi aveva passato tutta la notte a battagliare con il mare in prua; era nell’ordine delle cose per chi aveva dovuto prendersi la responsabilità di girare la prora contro il fortunale per correre in soccorso di un’altra nave che stava affondando ed era nello spirito umano di chi se l’era sempre cavata bene in tutte le precedenti fortune di mare. So che i censori, con il senno di poi, hanno decretato: “Il Comandante Soletti prima di dare l’ordine di ritornare in rotta avrebbe dovuto accertarsi dell’effettiva avvenuta esecuzione del precedente ordine, quello della riduzione di velocità”. - Riposa in pace, Comandante Soletti. Noi che eravamo la con te, sul ponte della “Michelangelo” lo siamo ancora e lo siamo con il tuo stesso spirito di allora, con lo spirito di chi affronta il pericolo e non di quelli che a cose avvenute, a tavolino, cercano l’errore umano.
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Fu così che pochi minuti dopo l’ordine di ritornare in rotta, la “Michelangelo” si scontrò con un mostro fatto d’acqua salata, erettosi improvvisamente sopra di lei dopo una fatale planata su di un enorme avvallamento scuro come l’inferno. Lacerante fu lo schianto ma troppo forte per sentirlo e ricordarlo. Ci fu un attimo di buio pesto. Posso ricordare solo quello che accadde a me: mi trovai di colpo trascinato a terra da un’irrompente massa d’acqua; poi l’acqua sciabordò, quindi si ritrasse in parte defluendo non so dove e ritornò la luce livida di quella giornata infelice. Dal ponte di comando mi perveniva irreale il suono di tutti i campanelli e i cicalini d’allarme; su tutti più forte, gracidavano le suonerie dei telegrafi di macchina. Inzuppato fradicio mi alzai e di un balzo fui in plancia con un senso d’angoscia che mi attanagliava la gola. Camminavo nell’acqua in mezzo ad un mucchio di sfasciume. Quasi tutti i finestroni della plancia erano spalancati e sibillanti come tante bocche d’Eolo; i cristalli infrangibili spariti, ridotti in scheggine e scheggione. Con un colpo d’occhio mi resi conto della situazione: il Comandante Soletti, davanti ai due finestroni di dritta rimasti fortunosamente intatti, taceva e mi guardava stando ancora chino come per proteggersi da un altro colpo, idem per Ascheri; sulla mia sinistra, al centro, il timoniere stava aggrappato alla ruota del timone e mi fissava istupidito, con un rivolo di sangue che gli colava sulla fronte. Gli chiesi: “Governa? Come sta?” – “Si sior, bene!” – “Bene, tienila ti raccomando!” – poi di getto rivolto al Comandante: - “Governa Comandante siamo a posto!” – Quel “governa” significava la nostra salvezza. Malgrado il colpo devastatore il meccanismo del timone non aveva subito danni, così la nave restava sotto il controllo; se non lo fosse rimasta probabilmente non saremmo qui a raccontare questa brutta avventura, perché la nave si sarebbe traversata al mare, ed il mare l’avrebbe assalita e demolita come una vecchia diga già incrinata. Il Comandante Soletti, passato l’attimo di smarrimento, padroneggiò la situazione e diede subito gli ordini opportuni per fronteggiare lo stato d’emergenza che si era creato. Vi ricordate che sul ponte c’era anche il fotografo? Era ancora lì rannicchiato nell’angolo di sinistra; il cristallo del suo finestrone non si era rotto, ma a pochi centimetri al di sopra della sua testa, c’era una scheggiosa di cristallo conficcata come un chiodo dentro la parete. Pochi centimetri più in basso e sarebbe stata letale. L’ufficiale al radar era rimasto incastrato tra le pareti dell’apposito abitacolo che conteneva i due radar. Pure lui ne uscì senza danni, i radars invece k.o.! in sala nautica in quel frangente c’era pure l’ufficiale di macchina addetto ai servizi elettrici seduto sul divano; a lui l’acqua arrivò ginocchia, lasciandolo asciutto a metà, e così poté intervenire subito per far cessare quel dannato brusio provocato da tutte le suonerie messe in agitazione dal tremendo colpo di mare. Con tutto questo mi sembra di aver risposto alla domanda formulata nella lettera di mia madre, o perlomeno sottintesa, ma credo che per chi legge, sia opportuno che io continui a narrare il seguito dei fatti sino alla conclusione del viaggio a New York. Sul momento, in effetti, noi non ci chiedemmo nemmeno cosa c’era capitato, e come era potuto accadere; sapevamo che era stato un grosso colpo di mare a scatenare tutto quel pandemonio e basta: non avevamo tempo per pensare. Il Comandante Soletti, saldo e impassibile come sempre, diede allora l’ordine di poggiare per mettere di nuovo la poppa al mare e di regolare la velocità al fine di ottenere dagli stabilizzatori il massimo rendimento. Poi mi diede un’occhiata. Compresi al volo. Gli occorreva una prima valutazione dei danni sofferti dalla nave, dai passeggeri e dall’equipaggio. Sul ponte in quel momento, io ero l’unico libero da impegni di servizio in quanto mancavano il Comandante in seconda Cosulich ed il primo ufficiale Badessi; entrambi sorpresi con la squadra di pronto intervento, al ponte passeggiata. Anche questo ponte, sebbene chiuso a prora con porte stagne, era stato parzialmente invaso dall’acqua. Badessi comunque poté poco dopo raggiungere il ponte e mettersi a disposizione del Comandante per altri incarichi; il Comandante in seconda Cosulich invece no! Procediamo con ordine, ora qui di seguito io tenterò di descrivere ciò che mi si presentò agli occhi man mano che procedevo nella mia ispezione. Proprio sotto il ponte di comando, sul ponte lido a prora, c’erano le cabine del Comandante e del direttore di macchina. Trovai l’ordinanza delle comandate, un ligure, vecchietto ma arzillo di solito, che, bianco come uno straccio, saltellava sulle macerie di quanto restava delle due cabine, tentando di pescare dall’acqua quelle cose che lui reputava più importanti. Lì l’acqua sembrava fosse entrata soltanto dai finestrini e non attraverso squarci della lamiera del frontale che comunque risultava fortemente ingobbito verso l’interno. Nel ponte sotto la situazione era ben peggiore; il colpo di mare aveva schiantato le lamiere del frontale che si erano aperte come fogli di carta. Qui il mare aveva devastato tutte le cabine poste sul davanti, schiacciando contro le pareti interne tutto il contenuto. Tutto era ridotto ad uno sfascio dei materiali più strani, adoperati nelle nuove costruzioni navali, in pratica niente legno, ferro, cuoio, stoffa o carta che fosse, ma solo roba sintetica e le paratie erano di lega leggera. Quando vi giunsi trovai un’animazione straordinaria ed il perché mi fu subito chiaro: proprio in quelle cabine erano entrati poco prima dell’impatto, i coniugi Berndt, Mr. Steinback con il cameriere di bordo Arcidiacono, ed i camerieri ed i garzoni che erano venuti per curiosare lo spettacolo della tempesta. Nel
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successivo momento drammatico diversi camerieri e garzoni, e pure una cameriera del reparto, erano rimasti seriamente feriti e li stavano trasportando in ospedale. Alcuni di questi risultarono particolarmente gravi; uno, il garzone Ferrari avrebbe cessato di vivere da lì a poco; un altro invece, il garzone Bianchini, il giorno 15 dovette essere prelevato da un elicottero della Coast Guard, per essere ricoverato d’urgenza presso l’ospedale della marina militare di Boston. Molti altri dovettero essere operati seduta stante per una serie di fratture esposte. All’appello mancavano ancora i passeggeri su nominati. I coniugi Berndt furono trovati poco dopo da me con alcuni camerieri, nel passaggio esterno dello stesso ponte. Erano sopravvissuti al colpo di mare e poi erano stati risucchiati e trascinati dall’acqua oltre la paratia squarciata, nel corridoio esterno. Da lì, a carponi, lasciando le impronte delle loro mani insanguinate sulle pareti e sui vetri dei finestrini di lato, dove la moglie aveva bussato in cerca d’aiuto, si erano spostati verso il centro fino alla bussola di una porta che dava all’interno, là dove li trovammo esausti. Il signor Berndt purtroppo giunse cadavere in ospedale, la moglie invece se la cavò. Nella cabina dove erano stati visti entrare Mr. Steinback ed il cameriere, al momento non si poteva entrare causa il materiale accatastatosi contro la porta. Solo dopo ore di lavoro fu possibile divellere la porta ed entrare nella cabina scavalcando la montagna di detriti. La parete esterna non esisteva più e lo sguardo poteva spaziare dalla prora della nave al mare ed al cielo. Il cameriere Arcidiacono fu trovato ancora vivo rattrappito in un vano creato dagli stessi detriti; Mr. Steinback giaceva invece disteso sul suo letto con il collo spezzato, coperto dal materiale di quella che una volta era stata la sua cabina. Nel continuare la mia ispezione notai subito che man mano si scendeva i danni si riducevano d’entità e ciò era rassicurante. La situazione più grave si era creata, in effetti, nei tre ponti più alti. Sembrava che in quella zona la “Michelangelo” fosse stata colpita da una cannonata di grosso calibro, poiché presentava un buco enorme. Visto dalla coperta si aveva proprio l’impressione che il castello fosse stato colpito da una cannonata. Sceso nel vestibolo di prima classe il capo commissario intento a calmare una vecchia signora americana che, ancora in abito da sera, girava con gli occhi sgranati ed il suo bicchierino di gin ben stretto tra le dita. La situazione tra i passeggeri appariva sotto controllo, non c’erano state scene di panico ed ora che facevamo di nuovo corsa con il mare in poppa, la gente si poteva muovere abbastanza agevolmente. Un grande spavento invece, mi raccontarono, avevano avuto i passeggeri delle cabine sistemate nei ponti bassi della sezione prodiera, perché tutta l’acqua entrata dallo squarcio del cassero, precipitando poi dallo scalone a mò di cascata, si era raccolta in basso allagando le cabine; l’acqua in certi punti era arrivata all’altezza delle cuccette e non fu impresa facile per i camerieri e marinai vuotarle a colpi di bugliolo e di redazza. Feci un giro per il ponte vestiboli dove erano situate le sale da pranzo e le cucine. Distribuivano panini, ne afferrai uno al volo: ero ancora tutto zuppo, ma non ci pensavo e avevo fame. Un barista della seconda classe mi raccontò che là dove si trovava lui, l’impatto era stato avvertito come una grossa scossa tellurica e tanto violenta da scaraventare un passeggero, che si trovava in un corridoio trasversale, da un’estremità all’altra dello stesso, facendogli rompere con il capo due grosse porte di cristallo. Questi era stato subito trasportato in ospedale privo di coscienza, dato per morto, invece fu uno dei feriti gravi che si salvarono malgrado tutto. Quando arrivai in ospedale il conto dei morti era già di due, solo dopo mezzogiorno sarebbe arrivata la notizia del ritrovamento del corpo esanime di Mr. Steinback. In ospedale la confusione era impressionante. I medici si prodigavano come i medici di un ospedale da campo durante una battaglia.
La cameriera ferita giaceva su di un lettino e si lamentava ad ogni movimento della nave: aveva il bacino fratturato. Altri si lamentavano tenendosi le fasciature provvisorie in attesa dell’intervento dei medici. Un’altra sorpresa mi aspettava. Aperta la porta di una cameretta dell’ospedale mi trovai davanti al Comandante in seconda Cosulich, disteso su di un lettino, con gli occhi più spalancati del solito. Aveva un braccio ingessato. Gli era successo che, terminato il lavoro sulla tuga prodiera, si era portato all’interno della nave per comunicare per telefono al Comandante dell’avvenuta riparazione dei danni ali aeratori. Poi, dopo la telefonata, si era inoltrato sul lato dritto del ponte passeggiata. Quando avvenne il fatto, anche lui fu gettato a terra dallo scrollare della nave; evidentemente questo brusco movimento era stato accompagnato da una violenta torsione dello scafo perché, proprio in quella parte della nave si verificò la rottura dei tubi del sistema di chiusura idraulico delle porte stagne, con fuoriuscita abbondante d’olio. Quest’olio si sparse per la passeggiata, e quando il Comandante in seconda tentò di rialzarsi, immediatamente scivolò e piombò nuovamente sul pavimento procurandosi la frattura del polso della mano destra. In suo aiuto accorsero subito i camerieri in servizio nei circostanti saloni che ebbero un bel da fare per aiutarlo ad uscire da quel pantano l’olio e poi accompagnarlo all’ospedale. Cosulich fu il solo ufficiale a riportare ferite in quel disastro, e per sua e nostra fortuna non molto gravi perché, subito dopo l’ingessatura, fu in grado di riprendere servizio. Sia pure con il braccio al collo e con la collaborazione del primo ufficiale Badessi, poté così portare a termine tutta l’enorme mole di lavoro tecnico e burocratico che comportava un avvenimento simile. Atti di morte, inventari, rapporti d’infortunio per equipaggio e passeggeri a centinaia, accertamenti dei danni materiali subiti dai passeggeri, danni subiti dalla nave ecc. ecc.
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Tutto questo lavoro fu portato a termine nei tre giorni che mancavano all’arrivo a New York con la collaborazione di tutti: ufficiali, allievi ufficiali, sotto ufficiali, amanuensi e comuni. Io passai due giorni a scrivere, ricopiare e poligrafare copie e copie di rapporti nautici e d’avaria stesi dal Comandante Soletti, il quale, devo ricordarlo, si comportò come un vero uomo di mare, con le palle d’acciaio degne della migliore tradizione lussiniana. I caratteri della sua scrittura, notai, erano rimasti quelli di sempre: chiari e ben marcati, e non rivelavano il minimo segno d’esitazione o stanchezza malgrado lo stress a cui era sottoposto, sia d’ordine fisico che morale e professionale. Poiché reperita juvant, continuiamo in questa pausa di riflessione per chiederci ancora: che cosa era successo dunque? Perché quell’enorme massa d’acqua aveva investito la nave asportando le frisate dei masconi come se fossero di carta, piegando tutto ciò che si opponeva alla sua corsa e sfogandosi alla fine con lo sfondare la paratia del cassero centrale? Perché aveva distrutto gli interni e spaccato i cristalli dei finestroni del ponte di comando sconquassandone la plancia? – la porta di sinistra, massiccia e pesante, che dava sull’aletta del ponte di comando, ricordo d’averla vista galleggiare come una zattera. – Era successo che, come ho già detto, un’ondata ci aveva investito in pieno quando la prua non si era ancora sollevata dal cavo profondo creato dall’onda precedente. Tecnici e uomini del mestiere hanno parlato di “onda anomala” e di “errore umano”: - “Bisognava rallentare per tempo e di più, prima di rimettere la nave in rotta contro vento.”. – Io non voglio qui esprimere alcun giudizio, so solo che se mi fossi trovato al posto del Comandante Soletti, avrei fatto la stessa cosa che fece lui: ciò era, come già detto, nello spirito delle cose, era nell’animo di chi, in prima linea sotto i colpi dell’avversario, non può avere le illuminazioni del generale che lontano dalla battaglia, può trovare il tempo di ripassare le lezioni dell’Accademia. Sotto i colpi dell’avversario non si fa accademia, si reagisce a muso duro e qualche volta anche si sbaglia o peggio ci si rimette anche la pelle. Per tutti c’è un crocevia, un passaggio obbligato, un appuntamento con il destino: p.e. se io fossi rimasto ancora per qualche minuto addossato a quel finestrone, affascinato da quelle montagne di mare che toccavano il cielo, ora non sarei qui a raccontare la mia avventura. Così è stato per il Comandante Soletti, e così è stato per i due passeggeri, e per il garzone della “Michelangelo” e così è stato per i cinque marinai della nave inglese “Chuscal”. La “Chuscal” era una grossa nave da carico che navigava ad una ventina di miglia più a levante di noi e che circa mezz’ora dopo di noi, venne anche lei colpita dalla fatalità. Ecco come informava le altre navi dell’accaduto, via radio: “M/N “Chuscal” posizione 40° 57’ N 43° 23’ W – vento forza 12 – Montainous sea (non so come tradurre: onde come montagne?) – 5 uomini perduti fuoribordo - possibilmente aggrappati a rottami di legno.”. Queste non sarebbero state le sole vittime del mostro infuriato, infatti, il giorno 14, quando noi ormai stavamo uscendo dal gran ballo, ricevemmo dalla nave da guerra “Indian Trader” il seguente messaggio: - “Uomo fatalmente ferito – (morto) – un altro con le braccia rotte – navi con medico a bordo prego rispondere.”. – Non dimentichiamo inoltre i numerosi infortunati del transatlantico “France” pure in rotta per New York, che il giorno 12 e seguenti si trovò a navigare sbandato di venti gradi sul lato sinistro causa la forza del vento che nei suoi messaggi WX (messaggio meteorologico) definiva “hurricane”, ed era pedantemente contraddetto dalla stazione meteo americana che non voleva sentire parlare di “hurricane” ma soltanto di “storm”! Cosa aggiungere altro a tutte queste testimonianze? Soltanto esprimere un desiderio: “Non chiamate onda anomala, l’onda che colpì la Michelangelo; onde come quelle sono tutto fuorché anomale negli oceani quando questi s’infuriano.”. La notte stessa tra il 12 e il 13 aprile, allontanatosi il centro depressionario e migliorando di conseguenza le condizioni del tempo, ci fu possibile ritornare gradualmente sui nostri passi e far rotta per New York. Il giorno 14 io potei mettermi in contatto telefonico con mia madre per rassicurarla a viva voce. Il tempo intanto continuava a migliorare e questo permise ad un elicottero della Coast Guard di prelevare nel pomeriggio del giorno 15, il nostro ferito più grave, il garzone Bianchini, per trasportarlo a Boston nel gran centro ospedaliero della marina militare americana. Dei giorni che seguirono quest’avventura, ho solo un vago ricordo, so di giornate interminabili, senza riposo, passate in ispezioni, controlli, scritturazioni, il tutto complicato dalla presenza a bordo, proprio in quel viaggio, del Presidente in persona della nostra stessa società di navigazione, un ammiraglio in ritiro! Altro particolare che ricordo perché mi faceva particolarmente innervosire: l’insistenza dei giornalisti, specie di quelli delle maggiori testate italiane, di voler parlare al telefono con il Comandante in persona, a qualsiasi ora del giorno e della notte, per poi rivolgergli domande banali o cialtrone. Ricordo il Comandante Soletti imperturbabile, paziente e cortese rispondeva a tutti. Arrivammo a New York il giorno 16; alle otto del mattino eravamo già attraccati al Pier 90 del West Side. Dovemmo allora far fronte ad un vero e proprio assalto da parte dei giornalisti americani e inviati speciali di tutto il mondo. La notizia dell’incidente alla superba nave della flotta italiana aveva fatto scalpore: quante parole furono dette e quanta carta fu stampata a proposito e a sproposito sulla disavventura della “Michelangelo”!
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Ancora però sento lo strazio che provavo nel guardare quello squarcio sulla facciata del castello della più bella nave su cui io abbia mai navigato. Per concludere mi permetto di ripetere ancora quell’esortazione che mi sta a cuore: “Per favore non chiamate più anomala l’onda che s’infranse contro la Michelangelo” alle ore 10.20 del 12 aprile 1966, perché sono state tali e tante le onde di tal fatta che sino ad oggi hanno imperversato per i mari, e tali e tanti i testimoni che le hanno viste e subite che onde simili non si possono proprio ritenere un’anomalia. Mi viene da rifare il verso della stazione meteo americana che redarguiva il Comandante del “France” – “no hurricane, just storm please!” – quindi ripetere: “non onda anomala, ma soltanto onda!” Anche se alle volte sono tanto grosse che quelli che ne sono colpiti non possono far ritorno a terra per raccontare come sono fatte, per dire che mostri sono, così com’è toccato ai tre della “Michelangelo”, ai cinque marinai della “Chuscal” ed al povero allievo ufficiale della “Indian Trader”.
La T/N “Michelangelo stazzava tonn. 45.911 Era lunga fuori tutto : 275 metri Portava in quel viaggio 775 passeggeri Numero massimo previsto di passeggeri : 1771 (561-550-690) L’equipaggio era composto da 720 persone Velocità massima 31 nodi – Velocità di crociera 26.5 nodi
Altri membri dell'equipaggio in servizio quel giorno:
Comandante Giuseppe Soletti Comandante in seconda Claudio Cosulich 1° Ufficiale Corrado Badessi
Claudio Suttora
Chiavari, marzo 1991
(Si ringrazia Il Comandante Giovanni Belfiore di Genova per avere trascritto su PC tutto il testo cartaceo che componeva la testimonianza)
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